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Considerazioni di Adriano Altamira
“Penso che per concludere il discorso sia opportuno fare, a questo punto, una serie di considerazioni, che spieghino come mai le esperienze, peraltro diverse, del gruppo di artisti di cui abbiamo parlato, accomunati solo dal fatto di appartenere ad una stessa generazione e di avere partecipato all'attività di una stessa galleria, possano essere ritenute come un insieme coerente, potenzialmente capace di evolversi fino a diventare una vera e propria corrente nel contesto di quegli anni effervescenti e vitali, anche se oggi purtroppo semidimenticati e soprattutto per molti versi fraintesi.”

Ad un primo livello sarà forse opportuno sottolineare un dato di carattere generazionale -stiamo parlando di artisti nati, tranne rare eccezioni, attorno alla metà degli anni '40 del Novecento: dopo il 1970-71, finito il momento di più stretta osservanza al concettuale “freddo” (per lo meno secondo la lezione anglosassone di Art & Language o quella americana di Kosuth, Barry, Wiener e Huebler), questi artisti non ancora trentenni, erano alla ricerca di nuove coordinate. Cercavano di basarsi su esperienze più personali, più “loro”, evidenziando contemporaneamente elementi caratterizzanti della cultura italiana.

Al di là dei molti equivoci generati proprio dall'uso del termine concettuale - cui a suo tempo ho già dedicato un saggio specifico - è vero che nella cultura italiana elementi pre e pseudoconcettuali erano nati fin dal decennio precedente: in questo senso la nostra cultura, che a torto consideriamo sempre influenzata da quella statunitense, era anzi stata un'antesignana delle ricerche che sarebbero nate in america verso la metà degli anni Sessanta, e che avevano una matrice minimalista -che a noi in effetti mancava.
Tuttavia non si può dimenticare che l'azzeramento in pittura, i monocromi di Klein e Manzoni nascono assai prima da noi in Europa che negli Stati Uniti.

Per rimanere a Milano, le ricerche di Manzoni e quelle di Fontana che costituiscono la vera matrice della rivoluzione di cui stiamo parlando, avevano già raggiunto entro il 1963 le loro formulazioni più alte.
Fontana, vero e proprio caposcuola milanese di riferimento per più di una generazione di artisti, aveva del resto espresso le sue istanze più radicali addirittura fra il 1949 e il 1952, cosa di cui molti, soprattutto all'estero, tendono a dimenticarsi.

Vincenzo Agnetti, la cui attività artistica inizia verso la seconda metà degli anni '60, aveva avuto il merito di trasmettere, di commentare l'attività di Piero Manzoni già nella prima metà degli anni '60, fornendone una versione che sarebbe risultata direttamente funzionale proprio alla generazione di artisti di cui stiamo parlando.

Se gli aspetti più vistosi della rivoluzione di Fontana e di Manzoni restano per la maggior parte legati ai “tagli”e al “Concetto spaziale” di Fontana, e agli “Achromes” di Manzoni; Agnetti ha il merito di sottolineare il senso tautologico (prettamente preconcettuale) per esempio delle “Tavole di Accertamento” di Piero Manzoni.
Del resto, negli anni immediatamente precedenti alla morte, Manzoni stava evolvendo proprio la parte più rivoluzionaria del suo lavoro (i vari “zoccoli” titolati da targhette di tipo commerciale), per molti versi neodadaista, duchampiana, ma dall'altra, di fatto, basata su espressioni puramente verbali accostate ad oggetti: operazione che diventerà corrente di lì a qualche anno. Non dimentichiamo peraltro che le prime rivoluzionarie opere di Agnetti (la “calcolatrice drogata” del 1968, i libri “dimenticati a memoria” del 1971) si muovevano fra l'eredità fino a quel momento non raccolta di Manzoni e le ipotesi combinatorie di Nanni Balestrini. Segnalerei en passant anche l'uso (1971) di tele con parole scritte in caratteri greci antichi di Valentino Zini.

Potremmo qui affermare che da un'opera come “Le Socle du Monde” di Manzoni e le varie scritte o “lapidi” dei primi Settanta il passo è più breve di quanto si sia fin qui notato. Qual'è dunque la differenza fra “Le Socle du Monde” e le lapidi di Tonello, di Salvo, le scritte di Jasci, o altre manifestazioni che abbiamo descritto più sopra? Io credo che sia una differenza più che altro di atmosfera. Una volta accettata la possibilità di sostituire materiale verbale a quello della pittura o della scultura tradizionale, è chiaro che l'artista cercherà consonanze con l'orizzonte culturale che ha in mente di realizzare.

Negli anni pre-contestazione di Manzoni le priorità erano quelle di sfatare i miti di un nascente capitalismo ignorante e farisaicamente legato -anche nelle manifestazioni più spirituali, come quelle artistiche- agli unici valori che riconosceva: quelli economici del consumo, delle quotazioni e della “firma” dell'artista; indifferente per il resto ai valori della qualità e del significato più profondo dell'opera. In questo senso il ricorso al nonsense, alla voluta stupidità, alla volgarità della merde d'artiste, sono perfettamente giustificati.

Negli anni post '68 della prima contestazione globalizzata e all'inizio dei Settanta con la prima grande crisi petrolifera mondiale, i parametri sono ormai diversi. Nel settore creativo, la lezione paoliniana di un'arte eletta e astorica, perfettamente autoreferenziale come quella anglosassone, anche se per motivi diversi, impone di seguire delle direttive più vicine a De Chirico -ce ne saremmo accorti qualche anno dopo - che ai miti fondativi americani, razionali e puritani. Per gli artisti italiani di cui stiamo parlando, per affermare un'arte nuova che avesse delle caratteristiche di fermezza e stabilità, era importante confrontarsi con la Tradizione , sia pure aggiornata all'oggi: non a caso l'icona principale di Fabro sarà l'Italia d'oro, quella di Paolini i gessi accademici (magari le due Veneri che si guardano, dando forma l'una all'altra); per artisti come Tonello e Salvo saranno appunto (attorno al '71) le lapidi marmoree: non sarà solo un caso che dopo il '73 entrambi torneranno a forme di pittura figurativa. Tuttavia il senso più profondo di queste istanze era tutt'altro che nostalgico: casomai aveva a che fare con il mito della rifondazione, un ricominciare da capo che recuperava tutto l'entusiasmo delle Avanguardie Storiche, pur con l'assoluta coscienza che i miti del Moderno erano vicini al tramonto.

Queste nuove coordinate spiegano così, da una parte, il disinteresse per constatazioni assolute, “scientificche”-come nel primo Kosuth o in Bernar Venet- e introducono invece l'aria fantastica, di sorpresa, che aleggia nelle opere di Paolini e Boetti e, venuti al nostro caso, l'aria di “maraviglia” che troviamo nelle Italie d'oro e cristallo di Fabro, nella “Finestra su vetro” di Trotta, nell'autobiografia picaresca di Jasci, in “Lucus e non lucendo” di Tonello: una speculazione filologica (letteralmente: luminoso da oscuro) sul senso della parola latina “bosco” che è, di fatto, un ossimoro. Come s'è appena detto, è certo che la particolarità dell'avanguardia che viveva tra Milano e Torino in quegli anni non era soltanto rivolto verso questo ritorno a temi, icone o a materiali della tradizione: altrimenti avremmo avuto una sorta di arte anacronista ante litteram. In effetti le novità (in particolare tecniche) portate dalla neoavanguardia internazionale (ad esempio foto, video, film d'artista) erano assunte naturalmente non solo in quanto già normalmente in uso -si pensi al ruolo anticipatore di artisti come Patella, Vaccari, Tagliaferro, fin dalla metà degli anni Sessanta- ma anche in quanto più funzionali al modo di raccontare certe situazioni. In questo senso basterebbe pensare alla compresenza di disegni e fotografie nell'opera di Paolini, e al loro specifico - e non intercambiabile - messaggio.
Ma lo stesso si potrebbe dire di Fabro, Nagasawa, Trotta, e degli stessi Jasci, Tonello, Ravedone.
Anzi è interessante notare come spesso forme che nascevano come disegni, venissero poi “raffreddate” attraverso trascrizioni meccaniche (cliché su rame, incisioni su plexiglas) o al contrario immagini fotografiche venissero, con effetto volutamente, straniante tradotte in emulsioni o bassorilievi su marmo e bronzo, mosaico, ecc.
In questo senso i rimandi classicisti che si possono ritrovare in questo nuovo contesto non hanno nulla di nostalgico o provinciale: al contrario assumono un valore spiazzante, volutamente manieristico, e segnano i confini di un linguaggio eletto, alto, che cerca confronti anche fuori dalle vicende contingenti del presente, pur vivendo pienamente il presente - a volte anche con verve polemica. Se come abbiamo detto c'è tutta la voluta contemporaneità di presente e passato di De Chirico, questa è però aggiornata con un passaggio attraverso le Avanguardie, che prefigura qualcosa di prossimo alla Transavanguardia di qualche anno dopo, già però scremata, preventivamente, dalle conseguenze equivoche che avrebbero nel bene e nel male caratterizzato quella corrente.
In effetti, il senso veramente classico di molte delle esperienze che abbiamo citato sta nella misura, nell'equilibrio, nella sobrietà con cui vengono attuate.

Nella prima fase, ad esempio, la scelta della fotografia al posto della pittura sta per una citazione che evitasse il confronto ambiguo fra la cosa in sé e la sua copia, che avrebbero affrontato di lì a qualche anno i pittori “colti” postmoderni -uno per tutti: Carlo Maria Mariani. Trotta, ad esempio, nella sua opera dedicata al San Sebastiano del Bellini (che fu trafugato in quell'epoca) lo citò in una serie di tele emulsionate con delicati interventi manuali. Ma è soprattutto nel video “Il sogno di Coleridge” che Trotta mostra un tratto di funambolico equilibrio nella capacità di interpretare la parola poetica attraverso una breve sequenza di immagini contemporaneamente semplici e stupefacenti.

I piccoli accenni neorinascimentali che abbiamo qua e là osservato (anche ad esempio nelle foto di Croce) non sono probabilmente in questo senso, una sorta di programma cosciente, quanto una conseguenza del clima che abbiamo cercato di delineare e che Maddalena Magliano aveva saputo raccogliere intorno alla sua galleria, sia pure per una manciata di mesi: ma quello era il tempo, e fu proprio in quel momento che venne formulata quell'ipotesi che poi, pur portata avanti in una serie di itinerari personali, avrebbe perso la spinta unitaria che avrebbe potuto procurargli un'esperienza di gruppo, specie con il solido sostegno economico e con la visibilità che una galleria (in questo caso lo Studio Maddalena Carioni) avrebbe potuto assicurargli.

Adriano Altamira



 
 
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